Seminari 2010-2011


Lo spazio pubblico e il disagio della marginalità

di Maria Grazia Campari

Il mio intervento si riallaccia inevitabilmente al discorso svolto nel seminario del 2009 con il titolo problematico ”Femminilizzazione dello spazio pubblico?” ove la problematicità derivava dalla constatazione che in Italia, malgrado apparenti spinte innovative e la creazione di organismi apparentemente promozionali, lo spazio pubblico registra presenze femminili non particolarmente qualificate e, soprattutto, centellinate in dosi omeopatiche, con la conseguenza di posizioni maschili monopolistiche e di sofferenza della democrazia partecipata.
Ma la democrazia o è partecipata o non è. La prossimità al baratro che evidenziavo un anno fa, mi pare che si sia involuta in una caduta nel baratro dal quale occorre ora tentare di risollevarsi, più faticosamente.
Appaiono oggi le caratteristiche salienti dell’ordine socio simbolico patriarcale: il dominio che si dispiega attraverso il controllo pervasivo del corpo femminile (solo per esemplificare: la legge laziale sui consultori e la libertà sconfinata riconosciuta ai medici obiettori); la negazione dello spazio pubblico attraverso la valorizzazione/imposizione di un confinamento nel servizio al privato come conseguenza dell’erosione sostanziale dei livelli di welfare state; la guerra quotidiana della violenza in famiglia dallo stupro al femminicidio.
L’oligopolio maschile che occupa lo spazio pubblico quale detentore della forza e del diritto  impone, attraverso l’apparato istituzionale, la marginalità di ogni soggetto altro, impedito dall’essere coautore delle regole del vivere associato.

La proposta -che avevo formulato nel precedente seminario su “il corpo e la polis”- di introdurre nell’ordine giuridico patriarcale mutamenti capaci di creare varchi e trasformazioni dell’apparato concettuale maschilista, eventualmente alleandosi alle femministe francesi nella  campagna per ottenere dalle istituzioni europee l’emanazione di regolamenti che imponessero agli Stati membri l’armonizzazione verso l’alto delle leggi riguardanti le esistenze femminili, non è stata tenuta in considerazione.
Ciò risulta perfettamente in linea con l’atteggiamento (più volte rilevato) di lontananza anche sprezzante che il movimento femminista italiano ha sempre riservato ai temi delle istituzioni democratiche e dell’ordinamento giuridico, con la conseguenza di una particolare arretratezza della situazione femminile italiana a livello sociopolitico, rispetto a quasi tutti i Paesi occidentali.
Nel presentare il documento “Di Nuovo” (Gli Altri luglio 2010) Ilenia De Bernardis osserva:”Il femminismo ha sbagliato a rinunciare alla responsabilità politica”, rilevando come “la grande forza delle donne italiane che aveva sprigionato tanta soggettività politica e culturale si sia di fatto adattata a godere di diritti e libertà soggettivi, rinunciando di fatto a misurarsi  con la sfida della responsabilità politica….a noi sembra che la perdita di egemonia del movimento delle donne sia inscritta proprio in questa rinuncia”….
Entro certi termini concordo con questa analisi pur rilevando, per evitare soffocanti sensi di colpa, che il compito si palesava particolarmente arduo in un Paese in cui leggi e istituzioni statali sono tradizionalmente considerate con pochissimo rispetto dai cittadini, non senza alcune buone ragioni.
Battersi per l’effettività di principi costituzionali posti a fondamento della concreta possibilità di sviluppo delle capacità umane di tutti i soggetti di qualsiasi sesso o razza avendo come modello l’idea di una vita degna, richiede un grande investimento di fiducia nell’etica delle istituzioni. Questa impresa da noi, potrebbe essere solo frutto di un immane sforzo volontaristico poiché leggi e istituzioni si sono spesso dimostrate nella storia patria strumenti diretti di potere delle classi dominanti in una società regolata da assetti di tipo tardo feudale (v. R Scarpinato in Micromega giugno 2010).
Si ricorda che, ad esempio, in Sicilia e in larga parte del Meridione l’ordinamento feudale è stato ufficialmente abolito solo nel 1812, ma è sopravissuto nel linguaggio e nei costumi praticamente fino ai giorni nostri. Che nel 1789, in epoca rivoluzionaria per la Francia e al varo della Costituzione statunitense, in Piemonte era ancora vigente la servitù della gleba e l’analfabetismo affliggeva circa l’ottanta per cento degli italiani.
Le istituzioni sono sempre state nelle mani di una classe dirigente affollata di forze reazionarie, salvo brevi periodi in cui ristrette élite culturali, agevolate da circostanze eccezionali (la guerra perduta e la resistenza, il movimento internazionale degli anni sessanta del novecento) hanno potuto temporaneamente dettare l’agenda politica, assumendosi ruoli maggioritari.
Quindi, fatti salvi quei brevi spazi temporali, le istituzioni e le leggi sono state da noi la voce dei vari potentati civili e religiosi, con la conseguenza che l’opera riformatrice richiesta si presentava di enorme vastità -considerata l’immane arretratezza- e il tempo è rapidamente fuggito per l’intervento di molti fattori interni e internazionali che sarebbe troppo lungo esaminare qui.

A fronte di un corpo legislativo civile e penale ancora fascista (tale ancora oggi) il tempo delle leggi di attuazione costituzionale, evocate da una presa di coscienza collettiva, è durato poco più di un decennio; già nei primi anni ottanta è giunta la controriforma, propiziata da un uso regressivo e antioperaio delle prime crisi capitalistiche. Si è iniziato allora a disfare la tela senza che si manifestasse una reale opposizione, si è in tal modo anche determinata l’irrilevanza dei ceti portatori di istanze di progresso.
La conseguenza è stata che gli sforzi per correggere le deviazioni, difendere ed espandere la democrazia sono stati e sono di pochissime/i che vi si dedicano con rinunce personali e per passione politica, senza riuscire, tuttavia, per ora, a contrastare il prevalere delle oligarchie che hanno insediato una “cattiva democrazia” (così G. Zagrebelski in La Repubblica 17.6.2010).
La lotta per la democrazia che è isomorfa alla lotta contro la soggezione della donna (J.Stuart Mill “The subjecton of women” 1869) sembra essersi persa per strada. Manca nelle relazioni un reciproco riconoscimento di umanità, si verifica un’emergenza di disordine, di anomia che produce il dilagare dell’aggressività maschile e mette in pericolo una reale emancipazione femminile.
Ma di ciò vi sarebbe bisogno, in parte contraddittoriamente, dal punto di vista del capitalismo avanzato. Il New York Times dell’11 ottobre 2010 attribuisce al machismo dei Paesi del Sud Europa lo scarso sviluppo e la fragilità delle loro basi economiche. Dopo avere esaminato accuratamente la qualità e la misura dell’esclusione femminile, giunge a determinare nella misura del venti per cento l’incremento del prodotto interno lordo ove si sanasse lo squilibrio fra occupazione maschile e femminile.
L’Italia resta “maglia nera dell’Unione Europea”. Il World Economic Forum ha recentemente reso noto che dei centoquattordici paesi presi in esame negli ultimi cinque anni, l’86% ha visto un miglioramento della condizione femminile, ma da noi vi è stato, al contrario, un peggioramento che ci retrocede dal sessantasettesimo al settantaquattresimo posto della graduatoria. In particolare, rispetto alla partecipazione al mondo del lavoro, il nostro posto è il novantacinquesimo su centotrentaquattro paesi, mentre rispetto al quadro politico le donne occupano solo il 21% dei posti e non hanno mai visto in carica negli ultimi cinquanta anni un capo di Stato donna (da Il Sole24Ore 13.10.2010).

Penso che per le femministe che intendono bloccare la deriva autoritaria in atto sia ora di  assumersi la responsabilità di partecipare, di rimettere in moto il processo democratico coltivando la conflittualità contro l’assetto presente, decostruendo il diritto nominale di partecipazione in favore di una effettività capace di indurre nelle regole dell’ordinamento il segno del valore di ogni più differente essere umano.
E’ quindi necessario agire conflitti capaci di scuotere la cornice obbligante dell’esistente, di contrastarla collettivamente, di porre riparo al danno sociale che consegue alla dispersione nell’individualismo, di dare risposte adeguate anche e prioritariamente ai gravi problemi di giustizia sociale.
La mia ipotesi è che si possa intraprendere la via del cambiamento iniziando con un’analisi e una pratica politica che mettano al centro i soggetti reali, i bisogni e i desideri diversamente incarnati in donne e uomini, evitando di incapsulare ogni potenzialità nel soggetto unico maschile, in tal modo creando situazioni facilmente preda, per motivi strutturali, degli eccessi del potere e delle prevaricazioni di soggetti sovra ordinati.
E’ questa una misura per potenziare i conflitti valorizzando i soggetti, una pratica di democrazia che inizia con l’eliminazione della divisione sessista dei lavori fra donne e uomini, che elimina la illibertà materiale ed emotiva delle donne nel privato, così ridefinendo anche la sfera pubblica, rimuovendo ingiustificati e svalorizzanti monopoli maschili.
Ciò pone in termini inediti il problema del welfare, consente una battaglia per la redistribuzione che non sia parziale –delle sole donne- ma che coinvolga anche le donne a partire dalla loro precisa esperienza esistenziale, che va innervata da atti di disobbedienza rispetto ai ruoli prefissati per uscire dalla narrazione maschile della realtà, fino ad oggi dominante.

 

16- 10- 2010

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